Letteratura kazaka. Noi Dante, loro Abai.

Kazaki, popolo nomade in viaggio


Il popolo kazako, una cultura e una tradizione antiche e profondamente umane, che neanche una mentalità “sovietica” o il fanatismo islamico sono riusciti a cancellare. Ne parlano lo scrittore Rollan Seisenbayev; la pianista Zhaniya Aubakirova e il rettore dell’Università internazionale kazako-araba Rukhaniat, il professor Murat Kazhi Mynbayev. E con loro don Edo Canetta, da anni nel «Paese della steppa e dei cavalli al galoppo»

«Ti amo, in lingua kazaka, si dice “Io ho su di te uno sguardo buono”»; interviene spesso don Edo Canetta durante l’incontro con affondi, incisi e precisazioni per mettere in risalto e comunicare a tutti la ricchezza linguistica del popolo che in 10 anni ha imparato a conoscere e ad amare. Di Kazakistan si parla spesso, ultimamente, ma sempre per temi legati al petrolio, al boom economico (il prodotto interno lordo cresce del 9% ogni anno); al disastro ambientale del lago d’Aral o alla città di Semipalatinsk, dove esisteva il più grande poligono nucleare del mondo (sono state fatte esplodere almeno 500 testate nucleari) chiuso ufficialmente nel 2000.

Fondamentale, non fondamentalista
Per raccontare cos’è il Kazakistan oggi don Edo, che insegna Lingua e Cultura italiana nell’Università Nazionale Euroasiatica Gumylyov di Astanà, ha invitato uno scrittore, una pianista e il rettore dell’Università internazionale kazako-araba Rukhaniat, il professor Murat Kazhi Mynbayev. Il quale si definisce un musulmano «fondamentale, non fondamentalista», perché convinto che per riscoprire le radici autentiche dell’onestà, della giustizia e dell’amore al lavoro sia necessario andare al fondo, alla fondamentale domanda di significato dell’uomo.
In questo senso sente vera la frase «Abbi paura di quell’uomo che non teme Dio», «perché l’uomo ha fame di libera volontà e senza il rapporto con Dio genera il male», ribadisce il professor Murat Kazhi Mynbayev, raccontando la sua storia personale, dall’ansia della riuscita nel lavoro e della conquista dello status sociale a scapito di tutto il resto, all’insopprimibile bisogno di risposte autentiche riscoperto in età adulta; una fame di significato che gli ha fatto approfondire la letteratura religiosa di tutti i tempi. O, per dirla con il professor Mynbayev, i testi «dei 124mila profeti a partire da Adamo». «Sono stato educato secondo lo spirito della teoria darwinista; tanti sono convinti che siamo discendenti dalla scimmia e che Dio non c’è. Purtroppo, questa mentalità “sovietica” continua ad avvelenare le persone. Le domande su cui si sofferma Giussani, ciascuno di noi inevitabilmente le ha fatte a se stesso».

L’unica via d’uscita

Ma l’uomo è debole e schiavo dei suoi istinti, di ciò che desidera con violenza nell’immediato e subito dopo dimentica, aggiunge il professor Mynbayev, citando Goethe e Pusškin, e pescando a piene mani nella tradizione del suo popolo per descrivere l’unica via d’uscita possibile. Per realizzare se stesso, l’individuo deve diventare un vero adam (“uomo” nella lingua kazaka) e realizzare le premesse contenute nella parola stessa, un acrostico che riassume i comandamenti fondamentali: alla A di adeth corrisponde la “buona istruzione”, alla D il rispetto per Dio, alla seconda A la giustizia. Infine la M, la lettera di maharat, che significa “amore” e riassume tutte le altre.

Affascinato dalla poesia italiana
Sulla stessa lunghezza d’onda Rollan Seisenbayev, scrittore e direttore della rivista Amanat, che dedicherà all’Italia e in particolare a Dante il prossimo numero. Affascinato da nove secoli di poesia italiana, certo che il dialogo con l’altro è un’occasione per approfondire la propria identità, si interroga sulla tradizione censurata della sua terra, dove secoli di storia e poesia sono stati spazzati via dalla furia iconoclasta del fanatismo islamico. «La cronaca del mondo è fatta dai soldati, la pace e la felicità non restano nella memoria. Ho imparato a diffidare degli stereotipi scientifici che si insegnano a scuola, con le facili equazioni “nomade” uguale “barbarie e sterilità culturale”» osserva Seisenbayev. La cultura nomade “tiurca” è ricca di proverbi sorprendenti: «Se incontri qualcuno cerca di renderlo felice, forse è l’ultima volta che lo vedi», dove al culto dell’ospitalità della steppa si unisce la certezza che il bene fatto produce altro bene; o il quasi evangelico: «Se ti picchiano con una pietra, rispondi con un invito a pranzo». Il pastore errante dell’Asia della poesia di Leopardi, insomma, potrebbe essere benissimo un pastore kazako. E magari chiamarsi come il grande pensatore Abai Kunanbai: «L’uomo non può essere uomo senza avere la percezione dei misteri visibili e nascosti dell’universo, senza cercare una spiegazione per ogni cosa. Colui che ci rinuncia non si distingue in nulla dagli animali...» (I detti di Abai, cap. 7).

Il cuore e il pensiero« Se il cuore non desidera più nulla - dice ancora Abai Kunanbai -/ chi può svegliare il pensiero?/ ... Se la ragione s’abbandona alla voglia, / perde tutta la sua profondità./ ... Un popolo degno di questo nome può fare a meno della ragione?» (Poesia 12).
Con il mezzo che più le è congeniale, la musica, è intervenuta la beniamina del pubblico kazako, la pianista Zhaniya Aubakirova, cavaliere dell’ordine della Letteratura e dell’Arte anche in Francia, artista e manager culturale in patria: «Eseguirò la trascrizione per pianoforte di Busoni della Ciaccona di Johann Sebastian Bach perché so che mi posso fidare di questo pubblico». Per il bis Zhaniya ha scelto una canzone kazaka «con dentro il vento, i cavalli al galoppo e i grandi spazi della steppa», commenta don Edo, più kazako dei suoi amici di Astanà.

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