K A R O Y - un film di Zhanna Issabayeva



Regia: Zhanna Issabayeva; interpreti: Yerzhan Tusupov, Rimkesh Omarkhanova, Aiman Aimagambetova, Kadirbek Demesin, Gulnazid Omarova; produzione: Sun Production, WorkStation Production House; origine: Kazakhstan 2007; durata: 93’

Ecco come la critica cinematografica può distruggere l'immagine di un Paese, distorcendone la realtà. Proprio come molti si sono fatti ingannare dal simpatico Borat, che ha scelto il Kazakhstan per ambientare un carattere e un paesaggio tutt'altro che compatibili con quel Paese, così la bravissima la regista kazaka Zhanna Issabayeva è stata interpretata come un'autrice di documentari, piuttosto che come una regista che racconti una storia, magari inventata, certamente esagerata, ma perchè per forza rappresentativa del suo Paese di origine? E' come dire che Friedrich Wilhelm Murnau, il creatore di Nosferatu, abbia documentato la reale esistenza di vampiri nella Romania degli anni Venti. Come se non bastassero i rom...

Recensione della giornalista Anna Maria Pasetti:
La conversione dal Male al Bene in versione kazaka. E femminile. Unica regista tra gli esordienti della Settimana internazionale della Critica (e una delle poche voci rosa dell'intera Mostra di quest'anno), la 39enne Zhanna Issabayeva ha messo in scena in Karoy il tema centrale dell'esistenza, lavorando sul cambiamento di un uomo. Il suo Azat è un inetto e malvagio a 360°e l'incontro con la madre anziana a malata lo porta miracolosamente ad una revisione interiore, sfociando in pentimento ed espiazione.
Se la storia è tutto tranne che originale, di certo ha pochi precedenti nel contesto socio-geografico (il più recente kazako di cui il cinema abbia parlato è Borat!) in cui è ambientata. La Zhanna ha esperienza professionale come giornalista, pubblicitaria e produttrice e sguardo acuto su quello che mostra. Che non è soltanto una vicenda privata ma un mondo di certo poco esplorato dall'Occidente, in cui le sue concittadine appaiono come sono ancora (e purtroppo) nella triste realtà della sottomissione agli uomini di casa. Ma non per questo non sono in grado di fungere come motore della coscienza, anche del maschio più violento come è il protagonista di Karoy. Il film è formalmente molto curato, sia negli aspetti fotografici che dell'uso delle inquadrature, con una prevalenza di carrellate che accompagnano i moti esteriori ed interiori dei personaggi.
Sinossi:
Azat è un buono a nulla, un mentitore capace di ogni cosa, in movimento da un villaggio all'altro in cerca di gente di cui approfittare, un farabutto dall'aria neanche minacciosa, anzi mite, ma privo di qualsiasi scrupolo, in grado tanto di piangere per estorcere con la menzogna denaro ai parenti, quanto di ubriacarsi e compiere le peggiori nefandezze ai danni di donne, vecchie e bambini. Quando gli uomini del villaggio lo mettono nelle condizioni di pentirsi una volta per tutte delle sue malefatte, il ritorno a casa dalla madre morente lo costringe a fare i conti con la sua coscienza: buona o cattiva che sia.
Biografia:
Zhanna Issabayeva è nata nel 1968 ad Almaty, Kazakhstan. Laureata in giornalismo, ha poi lavorato per alcuni anni nel campo pubblicitario. Dal 1996 è diventata produttore esecutivo per film come Last Holiday (Grand Prix a Rotterdam) e Zhilama. È attualmente a capo della Sun Production, per la quale ha prodotto, con budget indipendente, il suo primo film da regista, Karoy.


Recensione apparsa sul sito close-up.it e firmata da Alessia Spagnoli, giornalista cinematografica:
(tenetevi forte)

In alcune società contemporanee, conchiuse in angoli sperduti del mondo, pare non possa o non debba esserci alcuna possibilità di scelta per i suoi abitanti. Il bel film kazako dell’esordiente regista Zhanna Issabaeva racconta vicende umane dolorosissime, crudeli, in cui l’atrocità del tono è segnata da una violenza che è insieme concreta e intangibile, un destino ineffabile che opprime crudelmente le vite delle persone, come il cielo che schiaccia la terra nei suggestivi, eppure ostili, fondali naturali del Kazakhstan, splendidamente fotografati in Karoy. L’ex repubblica sovietica, dimenticata dal mondo, sta vivendo cinematograficamente una stagione, all’opposto, di rinascita, una vera e propria fase di “nouvelle vague”, come sostiene Fabio Ferzetti nella poche parole introduttive alla proiezione del film, presentato nella Settimana della Critica.
Nella prima parte del lungometraggio, la regista mostra il suo protagonista macchiarsi di una serie di azioni non solo moralmente basse, ma addirittura agghiaccianti. Fin dall’inizio della pellicola, assistiamo al suo gettar discredito sulla reputazione di una giovane donna, e questa sola diceria vale a far picchiare a sangue l’incolpevole ragazza dal suo promesso sposo. Dalle parole di quest’uomo apprendiamo come in Kazakhstan esista una forma di “stupro legalizzato”, per cui il futuro marito di una vergine può appurare la sua illibatezza attraverso la violenza fisica. E già solo da questo prima scoperta, nasce il brivido che accompagna l’intera visione del film.
In seguito vediamo il protagonista Azat (uno straordinario Yerzhan Tusupov: il suo, sì, che è un ruolo difficile!) derubare senza alcun rimorso l’anziana nonna del frutto del poco, sudato guadagno del povero commercio o privare un bambino del suo cavallino, mezzo di trasporto imprescindibile in quegli aspri scenari. Giunge perfino a stuprare una donna, non solo incinta, ma addirittura partoriente: e questa sequenza è una delle più violente e insostenibili mai contenute in un film, probabilmente.
Di fronte agli atti di questo campione di crudeltà inaudite, non può non scattare la repulsione e la condanna. Poi, però, l’uomo torna nella sua casa natale. E qui scopriamo che per i suoi due bambini è un padre affettuoso nonché un figlio amorevole per la madre moribonda. Tanto premuroso da esaudire la sua ultima, ancora una volta atroce, volontà. La Issabaeva non aiuta il pubblico a superare il disagio per questo scarto incomprensibile agli occhi di uno spettatore occidentale: non fornisce appigli, o giustificazioni di sorta per simili incongruenze comportamentali. Come si può comprendere, seppur lontanamente, come si possa mostrare per un simile soggetto sentimenti come l’umana comprensione o addirittura il compatimento? E, in quanto donna, non possiamo ritenere che la cineasta voglia o possa perdonare chiunque commetta uno stupro (e uno stupro del genere!) L’intento pare essere tutt’altro: la donna vuol rappresentare, attraverso la storia del suo protagonista, la storia del paese intero. Ella elegge a suo protagonista un uomo, relegando le varie donne al ruolo invariabile di vittime degli uomini. E, se le donne non possono che essere vittime, ella si interroga allora sul perché di questa violenza senza fine che le riguarda: e, ciò facendo, punta l’attenzione su ciò che ne è degli uomini, nel paese kazako. Parla di luoghi in cui uomini e donne sono condannati a esistenze disperate, in cui non c’è limite al carico di sofferenze che ciascuno deve portare su di sé, poiché è la violenza della società stessa che è inaudita.
Al di là dello shock di molte scene del film, ve n’è una, solo all’apparenza più pacifica e, proprio per questo più atroce, che mostra come ogni utopica speranza in un futuro migliore non possa applicarsi per i poverissimi abitanti delle montagne kazake: il padre di famiglia sta cucendo la cartella danneggiata della figliola maggiore, mentre questa e il figlio più piccolo fanno i compiti. L’illusione in una possibilità di riscatto sociale e morale tramite lo studio, si esplicita in questa immagine dolorosa.

La Issabaeva è una cineasta giovane, piacente (la si direbbe un’attrice) e questo Karoy rappresenta il suo primo, interessante lungometraggio: girare film nel suo paese non dev’essere impresa da poco, ma confidiamo che l’invito ad uno dei principali festival cinematografici del mondo possa, per così dire, “mettere in discesa” la sua carriera. Questo poiché riteniamo che il cinema del terzo millennio debba necessariamente aprirsi anche e soprattutto alle ultime “città proibite” ancora rimaste sul globo, e che ogni parola nuova detta su mondi sconosciuti o dimenticati, contribuisca ad alimentare la sua importanza e la sua magia. Qui ci viene mostrato cosa sia un vero kazako: Borat, insomma, sembra un alieno.

Ora io aggiungo:
Avrà mai fatto un giro in Asia Centrale, questa dottoressa Spagnoli? Di certo in Kazakhstan, specie nelle zone rurali più arretrate, vi sono abusi intollerabili sulla donna, tipici di ogni Paese che stia riscoprendo l'Islam e stia vivendo in profonda carenza di strutture democratiche. Ma non vorremmo tuttavia che si arrivasse a parlare con eccessiva facilità del Kazakhstan come quel funzionario pubblico, di cui non farò nomi; dirò giusto che si tratta della sarda che fa capo ai Rapporti con gli Organismi Internazionali dell'ICE (ricordo: l'Istituto per il Commercio Estero, quell'organismo che dovrebbe raccogliere esperti di relazioni internazionali e appassionati esterofili): nel 2007 lei affermò pubblicamente che in Kazakhstan non è riconosciuta la proprietà privata. Allora, io dico: in Italia non esiste la Mafia. Si faccia avanti chi la spara più grossa! Sù, apriamo il forum della cazzate!

La morale della favola è che più gonfiamo la realtà, più questa realtà... si rischia di avverarla. Dunque, non diamo al potere kazako la possibilità di concretare i nostri sospetti e cerchiamo piuttosto di vedere quanti progressi (siderali, se comparati alla stagnazione economica e istituzionale dell'Italia) questo Paese ha fatto in soli 15 anni, spingendolo a proseguire su questa direzione. Tra le prime riforme, parlo di 15 anni fa, vi è infatti la concessione totale della proprietà privata.

KZ, La destinazione. Racconto di viaggio di un Oil&Gas dude che si firma come l'Ugo Tognazzi in "Amici Miei". Mondo di anonimi...

Lello Mascetti ha scritto:

Questa volta non si tratta di alcunché di esotico o avventuroso (per lo meno non per come intendo io i “miei” viaggi), adesso che ci penso non stiamo parlando neppure di vacanza bensí del tanto vituperato lavoro! Poco male, da sempre la professione mi concede grandi possibilitá in questo senso, e me le godo tutte!.
E’ la mia prima volta in questo paese e, come tutte le prime volte che si rispettino, una certa dose di agitazione (tipo quella che ti attanaglia alla vigilia di Natale o al primo appuntamento con una bella ragazza) é immancabile e produce uno stress positivo tutto sommato piacevole. Perché poi, mi chiedo? Dovrebbe essere tutto programmato nei minimi particolari, imprevisti calcolati e nessuna possibilitá di ‘’evasione’’ (questo poi é tutto da vedere...faró il punto della situazione tra qualche giorno...).
Il motivo sta tutto nel nome, Kazakhstan. Di primo acchito mi viene in mente una delle tante ex-repubbliche sovietiche nei pressi della steppa siberiana, con la sua instabilitá geo-politica, spazzata 4 mesi all’anno da venti gelidi e temperature polari che mi fanno immaginare i suoi abitanti come esquimesi. Ci vado vicino, ma solo in parte.
Il Kazakhstan é una giovane repubblica nata poco piú di 10 anni fa sulle ceneri dell’impero sovietico, governata oggi dai soliti equivoci personaggi-smanettoni che spadroneggiano e dove il clientelismo, il nepotismo e la corruzione (qui mi fermo) sono all’ordine del giorno. La sua capitale é Astana, neonata anch’essa, giovane cittá-fantasma eretta nel nord del paese sullo stile architettonico (piú che discutibile) di Brasilia, dove tutto é finto, costruito di recente e che non lascia tracce storiche (presenti in gran numero invece ad Almaty, la vecchia capitale che, si dice, sia un piccolo gioiellino).
Per estensione il Kazakhstan pare sia il nono paese al mondo; confina a sud con Turkmenistan, Kyrgyzstan e Uzbekistan, a sud-est con la Cina e a nord/ovest con la Russia; deve le sue risorse al sottosuolo, alla pesca e alla pastorizia e, dulcis in fundo, si avvia a diventare, assieme a mamma Russia, la piú grande potenza energetica mondiale, soppiantando nel giro di 10/15 anni i paesi mediorientali. La culla di questo futuro boom si chiama Mar Caspio, zona nord, precisamente, un immenso lago d’acqua dolce poco profondo dove anche il vicino Iran recupera gli storioni per la produzione del famoso caviale Beluga. Io stesso, sotto ricatto del parentado, mi sono visto recapitare per lo scorso Natale una richiesta di caviale Beluga, alla quale ho risposto con una confezione di Veruga! (spero tanto si sia trattato di un tarocco d’allevamento o magari di un preparato industriale, visto lo sfruttamento senza regole di quelle acque).
La temperatura varia dai +40 in estate ai -45 in inverno (dipende comunque dalle zone, viste le diverse latitudini), in questi giorni non dovrebbe fare particolarmente freddo (+2 - + 14), i fiumi ghiacciano e quando piove il fango cinge d’assedio qualunque cosa, sedili dei taxi compresi. La popolazione è giovane e l’etnia prevalente, su quella russa, è quella mongola/cinese; i tratti sono inequivocabilmente asiatici, il Kazakho come lingua ha una sua dignitá e deriva ovviamente dal russo. La religione dominante è un islam moderato, piú soft rispetto a quello che si puó trovare magari in Turchia e pertanto meno pervasivo ed evidente nella vita di tutti i giorni.
Il viaggio inizia all’aeroporto Schiphol di Amsterdam (da me soprannominato Schifol), dove ritiro il biglietto dell’Air Astana (ma chi la conosce!!!); check-in alle macchinette automatiche della KLM e via verso il gate, non prima di aver acquistato del cioccolato fondente 81% per i colleghi (pare che per i kazakhi il cioccolato acquistato negli aeroporti rappresenti uno status symbol…mah!). Imbarco puntuale, mi sorprende in positivo lo spazio tra il tuo sedile e quello davanti nonché la mancanza del passeggero di mezzo tra il sedile di corridoio e quello di finestrino.
Stranamente l’aereo parte puntuale, il taxing da Schiphol è sempre fastidioso in quanto lunghissimo (13 minuti buoni) ma sono giá in preda al primo abbiocco della giornata. L’aeroporto di destinazione è Atyrau, situato sull’estrema propaggine nord del Caspio, dove arriveremo dopo 4 ore e mezza di volo e dove ci attenderá un fuso orario di 3 ore in piú rispetto all’Italia. L’aereo non è poi cosí pieno ma si respira un’aria strana, simile a quella che ho provato ai tempi (9 anni fa) del viaggio a Cuba…mi guardo attorno e vedo solo uomini, di tutte le etá, in prevalenza americani con i berretti da baseball, la camicia a quadri da boscaiolo e l’inconfondibile pancia sproporzionata.
Se non si trattasse di lavoratori, penserei subito ad uno di quei charter da “turismo sessuale”; le condizioni di vita in vaste zone kazakhe sono simili a quelle cubane, la povertá talvolta degenera in una prostituzione dilagante e diventa difficile non venire abbordati dalle ragazze locali.
Il pranzo non è niente male (a parte il dolcetto alla cannella e canditi), mi addormento con un pezzo di pollo ancora in bocca, sorridendo allo yankee di fianco che pasteggia allegramente con un doppio Johnnie Walker…

ATYRAU
I balzelli dell’aereo sulla pista mi svegliano dal torpore in cui sono caduto; ormai è sera, sono le 20.09, atterriamo con solo 9 minuti di ritardo, quando tutto intorno è buio. L’aeroporto di Atyrau non è altro che una baracca in lontananza. Sulla scaletta ci attendono alcuni militari in divisa dal buffo berretto, un po’ troppo largo in punta per non suscitare almeno un sorrisone.
Passeggeri normali da una parte, dipendenti della mia azienda dall’altra, veniamo smistati da un tizio che ci conduce ad una mini-baracca che funge da dogana e controllo passaporti. I privilegi per chi opera da queste parti nel campo petrolifero iniziano con questa procedura semplificata ma comunque estenuante per la trafila burocratica cui siamo sottoposti: ad uno ad uno ci presentiamo davanti allo sportello dell’ufficiale che controlla il passaporto, il visto, la landing card compilata in aereo, ci scatta una foto digitale ed infine ci indirizza ad un suo collega che ci porta in un’altra stanza dove il mio sgomento non puó che aumentare.
I bagagli sono infatti in mezzo al piazzale ancora impilati sul carrellino e ci tocca quindi andarceli a cercare, con il picio-pacio (acquitrinio fangoso) per terra, indi torniamo nella casupola giusto in tempo per compilare un form dove dichiarare qualunque oggetto elettronico (macchine fotografiche, iPod, etc) e passare infine ai raggi X i bagagli. Finalmente ci liberano e ci attende un’auto per l’albergo.
Non ci sono mezzi pubblici se non taxi, la cosa che colpisce di piú è la quantitá incredibile di fango sulle strade e sui marciapiedi non asfaltati (se cosí si possono chiamare per via della polvere che si deposita sulle strade non asfaltate.


BOLASHAK
Sabato mattina una jeep ci porta ad un sito a 40 km a nord di Atyrau, rinominato di recente Bolashak, il “futuro”, tanto per sottolineare una volta ancora l’importanza prospettica dell’oro nero per questa economia ancora in via di sviluppo ma dalle potenzialitá rilevanti. La strada appena fuori la cittá di Atyrau è quanto di peggio abbia mai visto in vita mia, al cui confronto certi postacci in Nicaragua o in Honduras sembrano autostrade americane, per via essenzialmente della mancanza quasi assoluta di segnaletica affidabile e della presenza constante di buche e sconnessioni gigantesche, che non consentono alla lunga fila di macchine di proseguire se non a passo d’uomo; non c’è bisogno di dire che l’asfalto per ora è solo una chimera.
Le cose migliorano leggermente con il procedere verso il sito (che, ahimé, non ha nulla di archeologico), ma solo perché gli enormi interessi in gioco hanno fatto si che alcune infrastrutture siano state costruite secondi crismi funzionali ed in tempi ridottissimi.
Si intravvede il parallelismo perfetto dei binari che corrono in una steppa desolata dove all’orizzonte la terra brulla bacia un cielo blu intenso dove alcuni cirrocumuli lo riempiono, monotono ma stupendo. Ad un certo punto la ferrovia si biforca verso destra, è il segnale che ci stiamo avvicinando alla meta, le autovetture e gli autocarri convergono in fila indiana verso il posto di blocco, il resto è solo un mostro di cemento e metallo brulicante di migliaia di formichine umane, che cresce lento ma inesorabile in mezzo al nulla.
Il ritorno ad Atyrau non ha niente di diverso dall’andata, il fango e le buche sono sempre le stesse, cosí come il cielo e la steppa che fanno assomigliare questo sperduto lembo di terra alle lande desolate ma stupende del mid-west americano.
Dopo cena, rigorosamente in albergo, ci prepariamo per la serata in discoteca, i colleghi vogliono portarci al Mayak. Un capitolo a parte meriterebbero le ragazze kazakhe ma soprassiedo, grazie al cielo con noi ci saranno anche un paio di colleghe italiane, eventuali assalti o tentazioni sono scongiurati.
Gli spostamenti in cittá avvengono giocoforza con il taxi ed in gruppo, pena correre il concreto rischio di essere aggrediti, anche in pieno giorno, da bande di valorosi ragazzotti evidentemente dediti alla lotta e alla violenza; il loro intento non è assolutamente quello di derubare, non è mai successo, bensí quello di pestare a sangue, giusto per il gusto della violenza fine se stessa o, se proprio vogliamo ricercare una qualche giustificazione razionale, per avversione e rivalsa sullo straniero benestante che viene visto come il colonizzatore, punendolo per essersi avventurato in giro per la cittá da solo, in spregio alla popolazione locale, che comunque prova acredine per la disparitá sociale cui è sottoposto. Un discorso che si potrebbe allungare all’infinito.
Il Mayak viene immediatamente soprannominato Mayalak, mi rifiuto di spiegare il perché anche se è facilmente immaginabile. L’ingresso costa 2000 tenghi (senza consumazione), l’equivalente di 13 euro, una cifra non irrilevante per i locali, il cui stipendio medio si aggira sui 450 dollari.
Il Mayak si trova al primo piano di un edificio proprio sopra ad un pub frequentato, guarda un po’, dai soliti inglesi (che non ritroveremo poi in discoteca). Fortuna (e sfortuna) vuole che ad animare la serata ci sia uno spogliarello femminile ed uno maschile, mentre la musica suonata mi è sconosciuta, a metá tra la nostra house piú o meno ballabile e una ritmatissima techno olandese.
Mi rendo conto che le bpm iniziano ad essere troppe per il mio fisico provato, divento quatto quatto parte della tappezzeria e, da buon scrutatore curioso quale sono, mi diverto a veder sfilare il fior fiore della gioventú locale (niente male, tutto sommato, quella femminile) e ad analizzare le dinamiche in atto tra colleghi e tra italiani e kazakhe, giusto per passare il tempo. Le etnie si mescolano senza imbarazzi, ragazze dai tratti chiaramente russi con kazakhi dagli occhi quasi a mandorla e altro ancora, percepisco peró nell’aria una certa strana tensione che non mi piace, soprattutto perché in futuro non puó che esplodere… ma solo l’indomani capiró il perché. Dai colleghi veniamo infatti a sapere che in una raffineria a Tengiz, 300k a nord di Atyrau, la crescente insofferenza verso lo straniero (che a paritá di qualifica guadagna piú del kazakho) si è manifestata in tutta la sua virulenza e una rissa tra turchi e kazakhi ha provocato un numero imprecisato di morti, ma le fonti ufficiali sono contraddittorie e tendono sempre a ridimensionare quanto accade in questo paese (l’ereditá sovietica è ancora forte, nonostante siano trascorsi più di 10 anni dalla fondazione della Repubblica).
Scopro sulla mia pelle che nelle discoteche kazakhe non è possibile bersi una birra in pista (e per gli altri, neanche fumare), troppi sono infatti i rischi che le bottiglie vengano usate come armi improprie, difatti vengo preso per un braccio ed allontanato da un tizio neanche troppo energumeno che, senza tanti complimenti, mi fa intendere che devo rimanere ai bordi della pista.
I prezzi delle consumazioni sono abbastanza incomprensibili (a parte il cirillico), ci sono due colonne di prezzi e non si capisce come vanno applicate, sta di fatto che consegniamo alla barista una certa cifra spannometrica per la quale ci attendiamo anche un corposo resto, ma di ritorno non riceviamo neanche un mezzo sorriso da questa ragazza che evidentemente ignora tutto ció che la circonda.
Il ritorno a casa avviene come al solito via taxi, rigorosamente ufficiale, la leggenda narra che alcune persone siano state addirittura dirottate in luoghi isolati e rapinate, ma questo avviene un po’ in tutte le parti del mondo quando si accettano passaggi da sconosciuti…

BAUTINO
E’ domenica, desidero con tutte le mie forze un lungo riposo in questo letto splendido, ma il dovere chiama, oggi si vola di nuovo. La solita jeep ci accompagna in aeroporto, dove ci imbarchiamo per ora di pranzo alla volta di Aktau, il secondo luogo piú radioattivo del Kazakhstan, dove in tempi non troppo lontani i simpatici sovietici scambiavano questa terra (ok, desolata) per il bersaglio dei loro esperimenti nucleari, insieme con il lago d’Aral. In effetti il paesaggio è ancora piú desolato e desolante di Atyrau, da queste parti pare proprio che la civiltá sia passata, abbia dato un’occhiata frugale e abbia tirato dritto.
Durante il volo noto con una punta d’emozione (e un malcelato disappunto, dettato più dalla mia anima ambientalista che dalla scocciatura del dover sporgermi fin quasi ad abbracciare il mio vicino di poltrona, un sonnecchiante ragazzone kazakho) una costruzione cementificata in mezzo al Caspio, la traccia inequivocabile della presenza dell’uomo e della sua sete di oro nero, cioè un’isola artificiale a forma inequivocabilmente vulvica (ma questa volta non si tratta di una delle solite deviazioni del mio cervello, e di ció mi compiaccio!).
Lo ammetto, la mania italiota dei telefonini non ha eguali nel mondo civilizzato, ma da queste parti l’inseparabile compagno trillante è davvero considerato uno status-symbol, al punto che pare sia usanza esibirlo ed accenderlo, insieme agli inevitabili bip-bip e suonerie varie, durante la fase d’atterraggio prima ancora di toccare terra; una sinfonia che mi riempie di una tensione inusuale, chissá come staranno impazzendo le strumentazioni di bordo!
Solita trafila per i bagagli, tutti fuori dall’aeroporto e al segnale convenuto, tutti dentro ancora a recuperare la valigia, stavolta senza l’omino che controlla la corrispondenza tra valigia e contrassegno sul biglietto; facciamo comunella (cioè, la mia collega veramente…) con un professore armeno di ritorno dall’universitá di Almaty, il quale porta un vistoso cerotto sulla guancia, souvenir dei soliti noti, cioè le bande codarde e vili di ragazzi locali che sbucano dai cespugli, ti “corcano” e ti lasciano a terra sanguinante (questa volta peró a lui hanno rubato portafoglio e cellulare…).
Dato il numero alto di persone da portare a destinazione, stavolta ci mettono a disposizione la solita jeep piú un pullmino da 15 posti, che occupiamo in 5, ansiosi di ristabilire il clima da “gita delle medie” con tanto di cioccolatini, macchine fotografiche e sguardi curiosi fuori dal finestrino (penso che a questo punto manchi solamente la classica zingarata con l’esibizione delle chiappe sul retro…ma il livello gerarchico della gente che mi circonda e la presenza di un rappresentante del gentil sesso spazza via ogni pensiero goliardico). Scatto qualche foto al nulla che ci circonda, la rotta ci porta verso nord, destinazione Bautino, un altro paesello fantasma animato unicamente da una base logistica che andremo a visitare. In questa occasione mi sembra proprio di essere in vacanza, in una della mie vacanze, zaino in spalla e autobus scassati in zone dove l’unico essere animato che si incontra è il guidatore di un qualsiasi autocarro sceso a sgranchirsi le gambe e ad espletare le sue funzioni, sicuro che nessun rombo di motore lo avrebbe mai disturbato! Invece no, turbiamo la sua quiete e, nonostante sia praticamente circondato, lo imito in uno dei gesti piú naturali e gratificanti, la pisciatina all’aria aperta con vista sul panorama circostante.
Un tuffo al cuore sta per causare il mio decesso anticipato, capisco che cosí non si puó andare avanti e che una sana alimentazione, unita all’attivitá fisica, è quantomai necessaria! Dopo lo spavento mi assale una tristezza esagerata nel ricordare una persona che non fa piú parte della mia vita…una donna? no; un parente? no; la causa del mio malessere è un cartello stradale che ci annuncia l’entrata nel paesello…il nome del paesello è Fort Schevchenko. Non ci posso credere, non faccio in tempo a fotografarlo, la rabbia del tradimento è sempre tanta, forse superiore a quella che ti fa provare una donna…
Superato a fatica lo sgomento mi butto a fotografare quanto di interessante viene offerto allo spettatore interessato in transito: i cimiteri. Nel breve tratto di strada che attraversa il paese ne conto almeno 3, molto simili tra loro, curati almeno esternamente, quasi monumentali nella loro architettura che contrasta molto con il nulla che li circonda.
Chi sono, cosa vogliono questi qua? Giá mi vedo, assaliti e rapinati da una banda di tamarri del luogo. La scampiamo per poco, la banda di ragazzotti che ci sbarra la strada non riesce ad evitare che la jeep che ci precede li scarti sulla destra e che il pullmino, dopo qualche incertezza che ci fa temere il peggio, la segua in una mini-fuga a scartamento ridotto ma non per questo piacevole, anzi. Stum! Un sasso colpisce il retro del pullimino, ci giriamo e i ragazzi sono lí che ci urlano qualcosa; non sapró mai quali fossero le loro intenzioni, se cercavano solo un passaggio per il paese successivo o se tentassero l’assalto alla diligenza, sta di fatto che in 3 si distendono sulla carreggiata quale estremo tentativo di impedire la circolazione dei veicoli (pochissimi, per la veritá), mentre gli altri 4/5 scrutano l’orizzonte per avvistare la prossima preda.
Giungiamo a Bautino, un minuscolo agglomerato di casupole bianche e basse, a metá tra le dimore maldiviane e quelle greche, non c’è invece traccia di attivitá commerciali, solo case. In fondo alla strada si staglia l’entrata recintata della base, che si affaccia direttamente sul porto. Da quest’area partono le innumerevoli navi che, come pendolari del mare, portano e riprendono i lavoratori dell’isola artificiale, scaricano materiali e mezzi senza interruzione, in qualunque condizioni climatica, anche d’inverno quanto vengono rimpiazzate da piú moderne ed attrezzate rompighiaccio. La telecamera virtuale ora si spegne, senza aver prima ripreso uno dei colleghi venir cazziato dal kazakho di guardia che gli vuole impedire di fare le foto sotto il cartello della base. “Che minchia vuole questo, non sa che lo licenzio domattina”, sembra gesticolare il collega siciliano dall’aria a metá tra il divertito e lo scocciato.
La giornata volge al termine, passiamo in guardiola a riconsegnare il badge assieme agli operai kazakhi che timbrano il cartellino e il pullmino ci porta ben 100 metri oltre la base, in un albergo che di spettacolare ha i prezzi degli alcoolici e la vista mozzafiato sul mare (che poi è un lago, il Caspio…). Corro fremente in camera sperando che la buona sorte mi abbia fatto assegnare un appartamentino vista mare, cosí in effetti è, non si vede nulla perché è tardi e mancano i lampioni dei nostri lungomare ma si percepisce l’aria salmastra e si sente chiaramente l’infrangersi delle onde sulla battigia. Che poesia…
Scendo per cena giusto in tempo per diventare testimone (e spalla) di una delle scene piú divertenti, l’ennesima parodia della stupiditá (o genialitá?) italiana. Sono a tavola con un collega di lungo corso, il solito collega che ha un sacco di storie interessanti sulle sue esperienze nei posti piú disagiati della terra, quello che ne ha viste e passate di tutti i colori e che quindi è sempre il piú spontaneo del gruppo; di fianco a noi sta cenando in solitudine una ragazza locale, né bella né brutta (anzi no, proprio brutta adesso che ci penso bene!), la cameriera viene al tavolo e si rivolge al mio collega chiedendo cosa voglia da bere. Paolo (chiamiamolo cosí, diamo a questo mito un nome di fantasia) sfoggia il suo russo impeccabile ed ordina una birra locale e una pizza, cosa che replico io ma in inglese; peró Paolo, come parli bene il russo, dove l’hai imparato? chiedo io. “Trombando”, reagisce lui, tirandosi su dal tavolo con lo sguardo allupato e incattivito, quasi simulando un amplesso con il tavolo, che tiene fermamente ai lati con le due mani. “e sai qual è stata la prima parola che ho imparato?” fa lui – no, non lo so Paolo, replico io - peró non dirla in russo che questa qui di fianco poi capisce, dimmela in italiano! – Una voce fuori campo aggiunge “Si dai, dilla pure in italiano, io lo capisco bene!” E’ la kazakha del tavolo di fianco che guarda Paolo quasi schifata ma comunque leggermente divertita. Cala il silenzio, io mi nascondo dietro al menú, Paolo tace (finalmente) per 10 secondi, dopodiché (io sono sempre nascosto) rincara la dose “eh ma lo sa signorina che funziona proprio cosí?”. Volevo morire, mi vergognavo da morire. Non so che faccia abbia fatto la collega (laggiú ci sono solo colleghi!), mi sono imparato il menu del ristorante a memoria, aspettando che questo tsunami si ritirasse. Ma Paolo non è uomo che si lasci sfuggire le occasioni e cosí la supercazzola continua. “Senta signorina (in italiano), siccome dovrebbero raggiungerci tra qualche minuto un paio di colleghi, le spiace se si siedono al tavolo con lei?” la kazakha accondiscende stupita, non sa cosa rispondere. La birra mi va di traverso, inizio a tossire. Il vulcano-Paolo è inarrestabile: “Anzi, signorina, perché non unisce il suo tavolo al nostro?” – e mentre pronuncia questa frase senza senso, il buon Paolo inizia a tirare verso di sé il tavolo della spaventatissima e sempre piú incredula collega kazakha. Tempo 20 secondi che la collega, trangugiando una mole incredibile di cibo giusto per non dare adito a dubbi al povero Paolo, si alza e si allontana, al che Paolo scoppia in una fragorosa risata che la fa voltare ed esclamare qualcosa nella sua lingua; dal tono sembra una bestemmia ma la sua faccia giá diceva tutto…
In fase di atterraggio su Atyrau entra ancora in azione Paolo, quello che conosce il russo. Questa volta la vittima sacrificale è un bambinello kazakho dai tratti molto simili a quelli degli eschimesi, tanto bello quanto noioso e molesto per via delle sue grida ininterrotte. Proprio mentre l’aereo tocca terra e il bambino urla, Paolo caccia un urlo animalesco, un buhh! talmente strano e forte che il primo a spaventarsi sono io, seduto al suo fianco, il secondo è il bambino e poi a ruota tutto l’aereo che si gira verso di noi, alla ricerca di quello strano animale (mi viene in mente una canzone di Vasco…). Il bambino ovviamente si zittisce, il padre sta decidendo quale arma utilizzare per far fuori Paolo, io non smetto piú di ridere (il bambino non ride e forse non riderá piú, secondo me Paolo l’ha traumatizzato).
Come al solito, appena atterrati ci attende il bus particular che ci porterá agli arrivi, scoppio di nuovo a ridere quando il bus percorre si e no 20 metri, ma subito comprendo il motivo di questo servizio e mi vergogno un po’…
Butto l’occhio dentro la sala d’aspetto, in tv danno un film americano in lingua originale, non ci sono sottotitoli in kazako, mi domando come possono capire i dialoghi…La spiegazione è semplice, non c’è doppiaggio, c’è solo una flebile voce fuoricampo che narra in kazakho gli avvenimenti, un racconto surreale senza pathos, senza tono. Anche questa è arte d’arrangiarsi.
Sono trascorse ormai parecchie settimane e del Kazakhstan non provo proprio alcuna nostalgia, ma una collega burlona mi ha portato proprio stasera a vedere “Borat” al cinema, una velata (ma non troppo) e divertentissima parodia della societá americana vista con gli occhi di un kazakho (Borat appunto), tanto ingenuo quanto cosí poco kazakho. Mi torna il sorriso, finalmente.







ABAI KUNANBAI - LA tristezza del saggio

Nacque nel 1845 in una ricca “jurta” (tenda) bianca da una famiglia dove il padre era capo del Clan Tobykty.
Crebbe nel suo “aul” (villaggio) come tutti i ragazzi della sua età frequentando la “madressè”
Guardando i programmi di questa scuola c’è da rimanere stupiti.
Insieme allo studio del Corano, base di ogni madressè, troviamo la proposta di materie come la filosofia greca, una certa conoscenza della letteratura, non solo quella locale, e un’insieme di insegnamenti di carattere scientifico di ottimo livello.

Occorre ricordare che proprio dall’Asia Centrale (e non dal Nord Africa come molti profani credono) si è sviluppata quella scuola di pensiero che avendo come maestri Averroè ed Avicenna ha valorizzato il pensiero dei grandi maestri della Grecia, arrivando, poi, fino in Europa, dove se ne era persa un’approfondita conoscenza, fino a diventare parte fondamentale dell’insegnamento di S. Tommaso d’Aquino alla Sorbona di Parigi.

La steppa kazaka dove cresce il giovane Abai è un paese di nomadi, che compiono grandissime migrazioni con le loro mandrie, portandosi con sé le loro jurte, leggere, ma solide, ottimo riparo sia d’inverno che d’estate e luogo ospitale d’una vera e propria vita sociale “sotto la tenda”

Da anni pero` la steppa kazaka e` anche diventata un “protettorato” zarista. I forti dei russi, soprattutto lungo i fiumi, ma anche nei tradizionali punti di arrivo del flusso migratorio, assicurano un certo controllo sociale e politico di un popolo di per sè incontrollabile, proprio per il nomadismo compiuto in questi grandi spazi.

I kazaki trovano nel forte dei russi un’istituzione che in cambio di tributi, per lo più di bestiame, soprattutto di cavalli necessari all’esercito russo, concede una protezione, peraltro mai chiesta.

Il popolo kazako ha una sua apprezzabile tradizione giuridica e amministrativa nata da un difficile confronto tra le esigenze dei vari Clan e con forme decisamente originali anche rispetto alla tradizione giuridica islamica.

Cosi` molti funzionari e notabili kazaki diventano quasi automaticamente funzionari e notabili dello zar, e tra questi anche il padre dello stesso Abai, soprannominato “il khan del popolo”
Proprio costui comprendendo saggiamente che oltre al potere i russi possedevano altri valori, iscrisse il figliolo anche alla scuola russa gestita dai monaci ortodossi.

Così il giovane Abai già aperto alla conoscenza del nuovo trovò questo nuovo nella cultura russa, ma proprio perchè in quel tempo la cultura russa era molto aperta a quella europea, egli attraverso la scuola russa conobbe anche ad esempio, Goethe e Dante Alighieri.

Così l’incontro con la cultura russa ed europea aiutò Abai, ormai non più tanto giovane, a riscoprire con maggior profondità i valori nascosti e spesso purtroppo, dimenticati della cultura kazaka.

È significativa l’affermazione di Abai “l’Occidente è diventato il mio Oriente” con cui voleva dire che l’incontro con la cultura occidentale gli aveva risvegliato un amore vero per la propria cultura popolare, visto tra l’altro, che nella poesia di Goethe o di Dante o dell’amatissimo Puškin ritrovava le stesse questioni fondamentali che si trovano nella profondità del cuore di ogni uomo, compreso naturalmente il kazako.

E così Abai destinato all’inizio ad una semplice carriera di funzionario, attraverso la grande cultura, quella delle grandi domande e dei coraggiosi tentativi di risposta vede spalancarsi il suo orizzonte fino ad intuire il nesso misterioso tra il proprio destino personale e quello del popolo.
Cosi` ripete, citando l’amato Puškin che “il destino umano e` quello del popolo” di un popolo di cui si sente di far parte.

Certo che questa “conversione” spirituale ed intellettuale non fu facile. Da una parte il peso del potere zarista, comunque illuminato e ben lontano da quello che negli stessi anni porta a compimento nel continente americano il genocidio del popolo indiano e la radicale discriminazione di quello afro-americano.
Dall’altra, la rabbia, a volte apparentemente persino violenta, contro il proprio stesso popolo inconsapevole dei suoi stessi valori.

Proponiamo di Abai una scelta di brani in prosa tratti dal suo libro “I Detti” considerato la sintesi più autorevole della cultura kazaka.
Proponiamo anche alcune delle sue poesie scritte tutte in età matura, cioè nel momento in cui Abai ritenne di essere divenuto degno di affrontare quella che lui riteneva essere la “regina della letteratura”.

Nelle poesie si acuiscono, anche un senso pessimistico le questioni della giovinezza, ma, al tempo stesso si fa più personale ed appassionata la coscienza della Fede.

Letteratura kazaka. Noi Dante, loro Abai.

Kazaki, popolo nomade in viaggio


Il popolo kazako, una cultura e una tradizione antiche e profondamente umane, che neanche una mentalità “sovietica” o il fanatismo islamico sono riusciti a cancellare. Ne parlano lo scrittore Rollan Seisenbayev; la pianista Zhaniya Aubakirova e il rettore dell’Università internazionale kazako-araba Rukhaniat, il professor Murat Kazhi Mynbayev. E con loro don Edo Canetta, da anni nel «Paese della steppa e dei cavalli al galoppo»

«Ti amo, in lingua kazaka, si dice “Io ho su di te uno sguardo buono”»; interviene spesso don Edo Canetta durante l’incontro con affondi, incisi e precisazioni per mettere in risalto e comunicare a tutti la ricchezza linguistica del popolo che in 10 anni ha imparato a conoscere e ad amare. Di Kazakistan si parla spesso, ultimamente, ma sempre per temi legati al petrolio, al boom economico (il prodotto interno lordo cresce del 9% ogni anno); al disastro ambientale del lago d’Aral o alla città di Semipalatinsk, dove esisteva il più grande poligono nucleare del mondo (sono state fatte esplodere almeno 500 testate nucleari) chiuso ufficialmente nel 2000.

Fondamentale, non fondamentalista
Per raccontare cos’è il Kazakistan oggi don Edo, che insegna Lingua e Cultura italiana nell’Università Nazionale Euroasiatica Gumylyov di Astanà, ha invitato uno scrittore, una pianista e il rettore dell’Università internazionale kazako-araba Rukhaniat, il professor Murat Kazhi Mynbayev. Il quale si definisce un musulmano «fondamentale, non fondamentalista», perché convinto che per riscoprire le radici autentiche dell’onestà, della giustizia e dell’amore al lavoro sia necessario andare al fondo, alla fondamentale domanda di significato dell’uomo.
In questo senso sente vera la frase «Abbi paura di quell’uomo che non teme Dio», «perché l’uomo ha fame di libera volontà e senza il rapporto con Dio genera il male», ribadisce il professor Murat Kazhi Mynbayev, raccontando la sua storia personale, dall’ansia della riuscita nel lavoro e della conquista dello status sociale a scapito di tutto il resto, all’insopprimibile bisogno di risposte autentiche riscoperto in età adulta; una fame di significato che gli ha fatto approfondire la letteratura religiosa di tutti i tempi. O, per dirla con il professor Mynbayev, i testi «dei 124mila profeti a partire da Adamo». «Sono stato educato secondo lo spirito della teoria darwinista; tanti sono convinti che siamo discendenti dalla scimmia e che Dio non c’è. Purtroppo, questa mentalità “sovietica” continua ad avvelenare le persone. Le domande su cui si sofferma Giussani, ciascuno di noi inevitabilmente le ha fatte a se stesso».

L’unica via d’uscita

Ma l’uomo è debole e schiavo dei suoi istinti, di ciò che desidera con violenza nell’immediato e subito dopo dimentica, aggiunge il professor Mynbayev, citando Goethe e Pusškin, e pescando a piene mani nella tradizione del suo popolo per descrivere l’unica via d’uscita possibile. Per realizzare se stesso, l’individuo deve diventare un vero adam (“uomo” nella lingua kazaka) e realizzare le premesse contenute nella parola stessa, un acrostico che riassume i comandamenti fondamentali: alla A di adeth corrisponde la “buona istruzione”, alla D il rispetto per Dio, alla seconda A la giustizia. Infine la M, la lettera di maharat, che significa “amore” e riassume tutte le altre.

Affascinato dalla poesia italiana
Sulla stessa lunghezza d’onda Rollan Seisenbayev, scrittore e direttore della rivista Amanat, che dedicherà all’Italia e in particolare a Dante il prossimo numero. Affascinato da nove secoli di poesia italiana, certo che il dialogo con l’altro è un’occasione per approfondire la propria identità, si interroga sulla tradizione censurata della sua terra, dove secoli di storia e poesia sono stati spazzati via dalla furia iconoclasta del fanatismo islamico. «La cronaca del mondo è fatta dai soldati, la pace e la felicità non restano nella memoria. Ho imparato a diffidare degli stereotipi scientifici che si insegnano a scuola, con le facili equazioni “nomade” uguale “barbarie e sterilità culturale”» osserva Seisenbayev. La cultura nomade “tiurca” è ricca di proverbi sorprendenti: «Se incontri qualcuno cerca di renderlo felice, forse è l’ultima volta che lo vedi», dove al culto dell’ospitalità della steppa si unisce la certezza che il bene fatto produce altro bene; o il quasi evangelico: «Se ti picchiano con una pietra, rispondi con un invito a pranzo». Il pastore errante dell’Asia della poesia di Leopardi, insomma, potrebbe essere benissimo un pastore kazako. E magari chiamarsi come il grande pensatore Abai Kunanbai: «L’uomo non può essere uomo senza avere la percezione dei misteri visibili e nascosti dell’universo, senza cercare una spiegazione per ogni cosa. Colui che ci rinuncia non si distingue in nulla dagli animali...» (I detti di Abai, cap. 7).

Il cuore e il pensiero« Se il cuore non desidera più nulla - dice ancora Abai Kunanbai -/ chi può svegliare il pensiero?/ ... Se la ragione s’abbandona alla voglia, / perde tutta la sua profondità./ ... Un popolo degno di questo nome può fare a meno della ragione?» (Poesia 12).
Con il mezzo che più le è congeniale, la musica, è intervenuta la beniamina del pubblico kazako, la pianista Zhaniya Aubakirova, cavaliere dell’ordine della Letteratura e dell’Arte anche in Francia, artista e manager culturale in patria: «Eseguirò la trascrizione per pianoforte di Busoni della Ciaccona di Johann Sebastian Bach perché so che mi posso fidare di questo pubblico». Per il bis Zhaniya ha scelto una canzone kazaka «con dentro il vento, i cavalli al galoppo e i grandi spazi della steppa», commenta don Edo, più kazako dei suoi amici di Astanà.

Foto KZ



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La maledizione del petrolio (R. Skidelski)

L’economia di un Paese come la Russia di Putin o il Kazakhstan di Nazarbayev è un’economia cosiddetta “a binario unico”. Il suo boom è alimentato dell’aumento dei prezzi dell’energia. Così spiega Robert Skidelsky, giornalista e opinionista per la rivista britannica Prospect:


Il predominio del settore delle materie prime è frutto di due fattori: il fallimento della “terapia d’urto” adottata per rinnovare l’economia negli anni Novanta e la convinzione che petrolio e gas consentiranno al Paese di restare tra le grandi potenze. Dal 2001 i prezzi dell’energia sono più che raddoppiati. Nel 2006 petrolio e gas hanno contribuito al PIL russo per oltre il 40% (in Kazakistan siamo all’incirca sulle stesse cifre: l’industria del petrolio e del gas ha assorbito il 47% degli investimenti diretti esteri in entrata, le attività immobiliari e di leasing il 31,7%, il settore manifatturiero l’8,2% ed il commercio all’ingrosso e al dettaglio il 4,2%).
Energia e minerali hanno costituito il 60% dele esportazioni russe e garantito il 40% dele entrate del governo. Le azioni del settore delle materie prime coprono l’80% del mercato borsistico della Russia.
Complessivamente l’economia dipende dall’esportazione di risorse naturali più di quanto non avveniva in epoca sovietica. Quello dela Russia postcomunista è un caso unico di deindustrializzazione. Sul breve periodo il Paese ha beneficiato enormemente del boom dell’energia. Tuttavia, è assai probabile che a lungo termine gli effetti siano nefasti, a causa di quell’insieme di fattori che gli economisti chiamano “la maledizione del petrolio”.
Per crescere, un Paese con poche risorse naturali deve sviluppare l’industria e i servizi. Giappone, Cina e India hanno usato la loro abbondante manodopera,tenuta artificialmente a buon mercato grazie a tassi di cambio favorevoli alle esportazioni. Al contrario, un Paese ricco di materie prime può svilupparsi rapidamente, ma corre il rischio di dare vita a un sistema economico che, sul lungo periodo, finisce per ostacolare la crescita. Questo paradosso ha diverse spiegazioni. Innanzitutto, i prezzi delle materie prime sono più volatili di quelli industriali. Per questo, un Paese dipendente dalle esportazioni di energia è particolarmente esposto agli sbalzi dei prezzi del mercato. In secondo luogo, gli ingenti flussi di valuta straniera, che arrivano dalle esportazioni di materie prime, danneggiano la competitività dell’industria interna non petrolifera e fanno aumentare il tassi di cambio. In terzo luogo, un’economia basata sulle risorse naturali rischia di essere troppo legata alla politica. Gas e petrolio vengono infatti considerati parte del patrimonio della nazione : devono quindi essere tenuti al riparo da mani straniere e messi a disposizione della politica. In quarto luogo nei sistemi economici dove abbondano le materie prime, tutte le energie creative sono assorbite dalla lotta per la distribuzione dei proventi dell’energia e non vengono usate per creare sviluppo. In queste economia la ricchezza è un dono della natura e occorre solo decidere chi ne controllerà le rendite. In quinto luogo, gli squilibri strutturali riducono la domanda di rappresentanza democratica. Un governo che non ha bisogno delle tasse sui redditi dei propri cittadini per finanziare i suoi progetti non deve nemmeno rendere conto delle sua decisioni all’elettorato. Infine, il controllo del territorio diventa una questione chiave per la politica. La distribuzione diseguale delle risorse può spingere alla secessione le regioni più ricche e incoraggiare le più povere a cercare di assumere il controllo su tutto il territorio con metodi dittatoriali.
Queste caratteristiche non sono le conseguenze inevitabili di uno sviluppo costruito sulle materie prime : sono tendenze che possono esseregovernate con i giusti provvedimenti politici. La Norvegia e i Paesi Basi sono sfuggiti alla maledizione del petrolio, la maggior parte dell’America Latina ne è stata vittima. L’Unione Sovietica aveva trovato una via d’uscita nell’industrializzazione forzata. La Russia postcomunista, invece, è stata colpita dalla maledizione del petrolio a causa del rapido tracollo industriale e della mancanza di quella competitività che avrebbe portato a una salutare ristrutturazione dell’economia.

Le conseguenze di questo sviluppo squilibrato sono evidenti nella Russia [e nel Kazakistan, ndF.S.] di oggi. Innanzitutto, l’economia è profondamente vulnerabile a qualsiasi diminuzione del prezzo del petrolio. Se il greggio scendesse da 60 a 45 dollari al barile, ilmercato azionario di Mosca brucerebbe in un attimo un terzo del suo valore. In uno scenario del genere, si ridurrebbe il potere di acquisto dei cittadini e ci sarebbe un calo sensibile della domanda aggregata. Anche le entrate del governo diminuirebbero a causa della contrazione dei profitti tassabili. Un’ulteriore conseguenza sarebbe il crollo del mercato immobiliare, sostenuto artificialmente dai petrodollari.
In secondo luogo, il Cremlino ha deciso di limitare gli investimenti stranieri nel settore dell’energia, con il risultato che la produttività è molto più bassa di quanto potrebbe essere. Il terzo punto è la mancanza di competitività. Nonostante i massicci interventi della banca centrale russa, dal 2003 il rublo si è rivalutato del 15% sul dollaro. Secondo un rapporto pubblicato nel Novembre 2006 dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, “i principali fattori alla base dell’alto tasso di crescita in Russia sono transitori”. In pratica, i profitti dalla svalutazione del rublo del 1998 sono esauriti e la crescita, dovuta agli alti prezzi delle risorse, rallenterà man mano che l’economia diventerà meno competitiva. Tra le ragioni del declino della competitività c’è di nuovo il petrolio. L’enorme afflusso di petrodollari ha fatto dimenticare la necessità di investire in innovazione e riforme, aumentando così la dipendenza dell’intera economia dalle materie prime.

L’economia della Russia [come quella del Kazakistan, ndF.S.] è altamente monopolizzata. La produzione di gas è controllata dallo Stato al 90% e il monopolista Gazprom è proprietario di tutti gli oleodotti per le esportazioni. Il controllo pubblico sull’industria petrolifera è passato dal 19 al 34% negli ultimi tre anni. Nell’industria metallurgica ci sono tre giganti del settore non ferroso (Rusal, Sual, in via di fusione, e Norilsk) e quattro nell’acciaio (Severstal, Mmk, Nlmk, Evraz). La quota delle ricchezze prodotta dalle piccole e medie imprese sul PIL è inferiore al 25%: la più bassa nelle economie di mercato emergenti. La Russia, inoltre, non è stata in grado di sfruttare il proprio capitale umano. Nonostante il Paese abbia una manodopera a buon mercato e con competenze tecniche e scientifiche superiori, la delocalizzazione nel settore dei servizi si è concentrata in India e Cina. Inoltre, un’economia basata su gas e petrolio non aiuta certo a combattere il fenomeno dell’emigrazione del personale qualificato,uno degli aspetti più preoccupanti del calo demografico in Russia. Anche in questo campo, i recenti e timidi provvedimenti adottati dal governo non sembrano sufficienti a cambiare le cose.
In una situazione simile, alcuni economisti sostengono che il Paese avrebbe diversi vantaggi da una diminuzione del prezzo del petrolio. Con un rublo svalutato, l’economia potrebbe diversificarsi e il settore non energetico diventare più competitivo. Tuttavia, questa transizione non sarà graduale e non potrà non tener conto dell’instabilità del mercato petrolifero. Nessuno sa quale prezzo del petrolio sua sostenibile a lungo termine. Per adesso, il bilancio e l’economia russi sono al sicuro grazie alle riserve di valuta straniera, pari a oltre 300 miliardi di dollari e a un fondo di stabilizzazione che tocca i 90 miliardi. A ben vedere, però, sono proprio questi enormi patrimoni a rappresentare un ostacolo all’innovazione e alle riforme.
In sintesi, si potrebbe affermare che l’economia russa è prospera ma non stabile. Il carattere ciclico della sua ricchezza è più accentuato rispetto a quello delle economie emergenti e povere di risorse o ricche e avanzate.

Dal punto di vista della solidità del sistema politico di Paesi quali la Russia e il Kazakistan, potremmo ricordare le parole dello storico britannico Andrew Wilson. Questi ha parlato di “politica virtuale” in cui il Presidente controlla i fattori produttivi del sistema democratico (partiti e mezzi d’informazione) e non ha così bisogno di manipolarne i prodotti (i risultati elettorali). Il primo ministro russo Michail Fradkov non conta nulla e i membri del governo sono importanti solo perchè hanno accesso diretto al presidente. Putin ha anche tagliato i finanziamenti alle ong politiche e si è guadagnato la fedeltà della chiesa ortodossa garantendole il quasi totale monopolio sulla vita religiosa del Paese.
Entrambi i presidenti, Vladimir Putin e Nursultan Nazarbayev, hanno dato vita a un sistema di governo altamente personalizzato, più simile a quello degli zar che a quello dei segretari generali del Partito comunista.

Ora, se l’Unione Sovietica era una superpotenza a binario unico, la Russia di oggi è solo una grande potenza a binario unico, mentre il Kazakistan è a appena una potenza in via di sviluppo a binario unico (il suo PIL ammonta ad appena 50 miliardi di dollari). Hanno scambiato il proprio complesso militare e industriale con un sistema economico basato sulle materie prime. Questa scelta ha bloccato la diversificazione dell’economia, ma ha aperto nuove strade in politica estera. La dipendenza dal petrolio ha portato la Russia a trascurare la questione degli interessi nazionali, da cui dipende anche la definizione di un’identità ancora confusa e incerta.
La prosperità legata al petrolio ha messo a tacere gli annosi dibattiti sul ruolo del Kazakistan nel mondo: oriental o occidentale, nazione o impero, alleata o polo. Putin, ad esempio, ha sfruttato in modo brillante l’opportunità offerta dall’11 settembre. Scavalcando le decisioni dei militari, ha deciso di appoggiare gli Stati Uniti, concedendo loro l’accesso ai Paesi ex-sovietici dell’Asia Centrale. Se il Kazakistan e il Kirghizystan rappresentano una base sicura per gli americani, non è stato perchè questi Paesi hanno deciso liberamente, ma solo perchè la Federazione Russa ha dato il via libera ad eventuali ingerenze sullo spazio post-sovietico. Ha poi chiuso le basi russe in Vietnam e a Cuba e ha accolto le richieste di Washington di mantenere il prezzo del petrolio più basso di quanto chiedea l’Opec. Questo avvicinamento poteva essere la base di una duratura alleanza con l’Occidente, alla continua ricerca di alternative al petrolio mediorientale. A Mosca, a Bruxelles e a Washington si è cominciato a parlare di un’allenza strategica tra i due ex nemici della guerra fredda, e di uno spazio energetico comune tra Russia e Unione europea.

Putin aveva investito gran parte del suo capitale politico in questo progetto di alleanze. Mail suo fallimento ha spinto al dietrofront la Russia, tornata ad avere con l’Occidente dei semplici “rapporti funzionali”. Se critiche alla politica russa in Cecenia si sono attenuate, tuttavia a Mosca non è stato offerto alcun canale privilegiato per entrare rapidamente nell’Organizzazione mondiale del commercio (WTO-OMC). L’occidente non ha nemmeno accettato di aprire un dibattito sui nuovi accordi in materia di armamenti nucleari e ha sempre rifiutato di concedere al Cremlino un ruolo attivo nella NATO e in Medio Oriente. Da Bruxelles non sono mai arrivate proposte concrete per costruire un’alleanza di largo respiro. Inoltre, una serie di rivoluzioni “colorate” in Serbia, Georgia e Ucraina, ispirate dagli Stati Uniti – o perlomeno finanziate dalla CIA – hanno aumentato il senso di isolamento della Russia e la sua paranoia antioccidentale. Anche gli accordi di cooperazione energetica con l’Unione Europea sono ostaggio della lotta per l’influenza strategica.
La Russia ha usato il suo potere energetico per ricordare agli ex Paesi fratelli che il loro futuro dipende più da Mosca che dall’Unione Europea (interruzione dei rifornimenti di gas alla Georgia e all’Ucraina, di petrolio alla Bielorussia e alla Lituania). La maledizione del petrolio si ripresenta quindi anche nei rapporti internazionali.

La maledizione del petrolio produce quello che lo scittore Viktor Erofeev chiama un “discorso imperiale intraducibile in altre lingue”.


Borat non è stato qui

Sacha Baron Cohen, il comico inglese demenziale e dissacratore, ha inventato un insolito personaggio. Si chiama Borat Sagdiyev ed è un giornalista kazako in viaggio negli Stati Uniti. La sua missione ufficiale è girare un documentario sulla vita nella amata-odiata superpotenza. In realtà il suo scopo è incontrare l'eroina del suo telefilm preferito.

Nel film diretto da Larry Charles, Borat gira per gli States e non perde l'occasione per rivelare di che pasta è fatto: razzista, sessista, cialtrone, il personaggio di Cohen non fa buona pubblicità ai kazaki. In questo articolo John Noble, autore Lonely Planet, rimette un po' le cose a posto e svela che in Kazakistan, molto probabilmente, Sacha Baron Cohen non è mai stato.



Se per caso vi fosse venuto il sospetto, sappiate che il Kazakistan di cui ci parla Borat è del tutto immaginario. I cavalli non hanno ancora ottenuto il diritto di voto, le donne possono viaggiare all'interno degli autobus (pagando il biglietto) e il rabbino capo del paese non molto tempo fa ha lodato il governo per il suo sostegno alla piccola comunità ebraica, dove solo in Kazakistan ha lo status di minoranza nazionale, oltre che religiosa.

Probabilmente Sacha Baron Cohen ha scelto il Kazakistan come patria del suo Borat perché questo paese dell'Asia centrale non è molto conosciuto in Occidente. In pochi si accorgeranno della mistificazione, avrà pensato.

Nato dalla disgregazione dell'Unione Sovietica, nel 1991, il Kazakistan è il nono paese più grande al mondo e, grazie alle riserve di petrolio e gas, la sua economia è una delle più prospere dell'Asia centrale. Si trova nel cuore della grande distesa eurasiatica, in una posizione fortemente strategica, tra Russia, Cina e il mondo islamico, nel cuore delle steppe che si estendono dalla Mongolia all'Ucraina. Queste ondulate distese di praterie sono la dimora ancestrale dei kazaki, un popolo dedito fino a non molto tempo fa quasi esclusivamente al nomadismo. Oggi i kazaki abitano in città, paesi e villaggi, insieme a russi, ucraini, bielorussi, uzbeki, coreani e persone di molte altre nazionalità (tra le quali gli ebrei, appunto), che per lo più arrivarono in epoca sovietica, spesso come deportati politici o internati nei campi di lavoro. Per un semplice sospetto, Stalin vi fece deportare tutti gli 80.000 coreani sovietici che vivevano ai bordi della provincia di Vladivostok. Ora, girare per il padiglione delle etnìe all'interno del Museo Nazionale di Almaty e ritrovare segni della presenza coreana può sembrare strano, ma anche molto eccitante. Deportazioni o no, il Paese è un porto di mare...

Per i kazaki la tradizione è ancora al centro di tutto. Le famiglie riconducono il proprio albero genealogico alla stirpe di Gengis Khan e sono in molti a giocare l'antico e sfrenato sport del kokpar, una specie di polo senza regole in cui una carcassa di animale fa le veci della palla. Lungo le strade di campagna vedrete cavalieri che indossano cappucci di pelliccia e che, servendosi di lunghi bastoni, conducono mandrie di cavalli, bestiame o pecore. La carne di cavallo e il kumys (latte di cavalla fermentato e non, come Borat vorrebbe far credere, urina dell'animale) sono ancora gli alimenti di base, soprattutto nelle aree rurali.

Le antiche tradizioni sopravvivono, ma il Kazakistan post-sovietico è impegnato a reinventarsi e a fare di sé una prospera e moderna nazione eurasiatica. Le città sono ormai entrate a pieno titolo nel XXI secolo, anche se mantengono l'impronta sovietica. I loro centri commerciali sono aperti 24 ore su 24, non mancano i negozi delle grandi catene internazionali, i caffè in perfetto stile occidentale, ristoranti e alberghi di buona qualità, bar eleganti e nightclub. I telefoni cellulari, poi, sono nelle tasche di tutti. Nei quartieri periferici si sta sviluppando l'edilizia residenziale, mentre le strade sono sempre più affollate di Toyota, Volkswagen o Mercedes, che hanno preso il posto delle vecchie Lada e Volga. Le auto continuano a fermarsi in prossimità delle strisce pedonali, ma sempre meglio tenere gli occhi aperti, quando si attraversa la strada.

L'opposizione politica non è molto tollerata dal presidente Nursultan Nazarbaev, alla guida del paese dal 1989. La famiglia del presidente detiene un enorme potere e lo stesso Nazarbaev è ritenuto uno degli uomini più ricchi del mondo. Nel bene e nel male, il suo governo ha riportato il paese alla stabilità, dopo gli anni turbolenti dell'era post-sovietica.


Kazakistan, non solo petrolio
Il Kazakistan, questo paese ricco di petrolio e grande quasi dieci volte l'Italia, sembra guardare un po' dall'alto in basso le altre repubbliche dell'Asia centrale (i cui nomi terminano tutti con il suffisso "stan", che significa "paese"), che si estendono a sud dei suoi confini, e compatire la loro arretratezza.

Il Kazakistan continua a essere ai margini dei principali percorsi turistici e ad attirare più petrolieri che viaggiatori. E questo non è affatto uno svantaggio per chi è in cerca di mete ancora poco esplorate.

Gli spazi non mancano: con una densità di popolazione di appena 6 persone per kmq, la claustrofobia sarà l'ultimo dei miei problemi.

Il nonno delle mele IV

In TV un'emittente russa trasmette il serial Distretto di Polizia. Per un certo periodo, è stato per me l'unica ragione per la quale dover accendere il televisore.

SoRprendente anche il miglioramento dei gusti televisivi dei russi. Quando, 6 anni fa, ero in Russia, trasmettevano Tequila & Bonetti e - tenetevi forte - Alex l'Ariete con Alberto Tomba...

Velo pietoso.

Il nonno delle mele parte III






Ho il viso distrutto, gli occhi che implorano pietà, il respiro di chi sta scendendo negli abissi di una miniera di carbone, rughe e occhiaie da farci un quadro di Munch, il dolore alla carie che ha rispreso a pulsare come il tamburo di una banda di paese, le gambe fragili come se avessi 72 anni, non 27.
Queste sono solo lacrime di coccodrillo, è solo colpa mia se mi ritrovo in questo stato: ieri ho alzato il gomito con una collega d'ufficio e la sua cugina almatese, così soltanto adesso provo a contare le birre e i superalcolici che ho ingurgitato al Soho Club cantando al ritmo dei Dire Straits, Pink Floyd e Deep Purple (perfettamente eseguiti da due cover band di rara bravura!). www.soho.kz

Devo rimettermi in sesto per l'incontro con il direttore generale dell'Istituto promotore del mio viaggio. In fondo, sono qui per questo. Merda, il servizio breakfast è chiuso da un'ora, mi tocca far colazione al supermercato: meglio così, perchè in hotel non hanno la Red Bull! Me ne scolo 2, una dietro l'altra, accompagnandole con del pessimo caffè e due brioche kazake: una con del pollo grasso e duro da masticare e l'altra alla confettura di frutti di bosco. E' chiaro che butto via la prima, sto già male per conto mio e mi precipito sui preziosi zuccheri della seconda. Il tutto coronato da un Aulin per lenire quella grancassa che suona sul dente e sulla testa. Frugando nel mio zaino, mi ritrovo il pacco di Marlboro Light ma lo lancio via con violenza per il troppo male che mi ha fatto ieri sera (Sirchia, c'è bisogno di te nei locali kazaki! Vieni ad impedirmi le paglie anche qui!)

Il nonno delle mele parte II

Almaty (o Alma-ata) fu fondata nel 1854 come stazione di frontiera russa, al tempo in cui i kazaki erano ancora nomadi, e fu capitale del Kazakistan fino alla fine del 1997. Almaaty ha attirato una certa quantità di commercianti, diplomatici e finanzieri stranieri e kazaki interessati alla lucrosa attività di estrazione delle risorse minerarie. L'improvvisa esposizione al mondo esterno ha trasformato questo avamposto di provincia nella città più cosmopolita dell'Asia centrale: ci sono negozi, ristoranti, alberghi e casinò e la città risulterebbe irriconoscibile a chi non l'avesse più vista dopo il 1990. Ma ora che il governo ha spostato la capitale ad Astana (in precedenza chiamata Aqmola), nel nord del paese, il suo futuro è incerto.
Almaty è pulita (a parte l'aria) e gradevole da vedere, ha lunghi corsi rettilinei ed edifici bassi e uniformi, tipici dell'inconfondibile stile sovietico. La catena montuosa Zailiysky Alatau si innalza come un muro lungo il limite meridionale della città e crea uno sfondo bellissimo quando tempo e smog ne permettono la visione. Ci sono diversi parchi, spazi all'aperto e alberi, e molti degli edifici costruiti durante l'epoca sovietica sono impressionanti se guardati con attenzione.
I luoghi più interessanti comprendono il Parco Panfilov, un gradevole spazio rettangolare verdeggiante che circonda la luminosa Cattedrale Zenkov.
La cattedrale è uno dei pochi edifici di epoca zarista sopravvissuti al terremoto del 1911, nonostante sia stata interamente costruita in legno e, si dice, senza fare uso di chiodi. Di fronte all'estremità occidentale del parco si trovano le Terme Arasan, dove si possono consumare salame e vodka e contemplare le differenze tra le abitudini termali di turchi, russi e finlandesi.
Il Museo Centrale di Stato fornisce una valida, anche se un po' frammentaria e ideologica, introduzione alla storia del Kazakistan, ed espone una copia in miniatura del principale tesoro archeologico del paese: l'Uomo Dorato, ovvero il costume di un guerriero fatto con 4000 pezzi d'oro, molti dei quali sono finemente decorati con motivi animali.

Il nonno delle mele parte I

Sono contento, ansioso ed eccitato come se mi trovassi di fronte ad una lillese che conosco bene: scrivo da un Boeing 747 della AirAstana, la stessa compagnia che tre settimane fa mi ha portato in Kazakistan per la prima volta nella mia vita. Certamente non sto tornando indietro! In quel caso, sarei molto triste, dispiaciuto di dover abbandonare questo Paese.
Ma allora dove sto andando con il lussuoso AirAstana? Sto dirigendo corpo e mente sull'estremo Est kazako, verso un pietra incastonata tra la Cina e il Kirgyzystan, il padre delle mele, in kazako appunto: la città di Almaty.
Panini shaschlyk, samsa al formaggio, cappelli tipici in visone, musei di Stato, palazzi governativi, locali notturni, ogni tipo di etnia sovietica... Sto arrivando.
Montagne dell'Himalaya sovietico, eccomi fra voi. Finora Alamty mi è parsa più moderna, più viva, più romantica, più "capitale" di qualunque altra gorod del Kazakistan.
Il fastidio dei furbastri che mi hanno circondato all'uscita dell'aeroporto, offrendomi taxi non ufficiali, valuta locale, sigarette a buon prezzo e trasporto bagagli, è ormai solo un ricordo. Tuttavia, era forte in me il desiderio di rispondere loro:
Cari amici almatesi, ma mi credete così stupido da cadere nei vostri inganni? Ma vi rendete conto che provengo da una città del Meridione d'Italia che farebbe impallidire anche Caracas? Non sapete quanti anni ho trascorso in questa città, conosciuta in tutto il mondo per la sua speciale accoglienza nei confronti dei turisti, talmente rilassati da sentirsi più leggeri, più leggeri, più leggeri...? Ma non sapete che se alle Hawaii ti circondano il collo con una bella collanina di fiori, per la città da cui vengo io è indicato prenotarsi una corona di fiori? Suvvia, lasciatemi passare!


All'aeroporto ho visto gente viaggiare con paraurti di automobili pick-up, fiancate e tubi di scappamento come se tenesse in mano un beauty-case o un trolley. Se in aereo alcuni kazaki potessero portare galline o animali più grossi da rivendere al mercato come bagaglio a mano, credo che non esiterebbero a trasformare il veivolo in una nuova arca di Noè.

Bene, non so perchè, ma Almaty sa già di Cina: il commercio dei prodotti del gran re del dumping è qui vivissimo. Poco male, perchè nelle drogherie di Atyrau non era facile trovare prodotti d'ogni genere (solo la vodka può contare una cinquantina di marche diverse) e quando succedeva li pagavi salatamente. Qui invece ho già previsto di sbizzarrirmi con alcune visite nei supermercati, come se si trattasse di musei o, meglio, di un pomeriggio al luna park.

Il tassista che mi ha portato dall'aeroporto all'Hotel Kazakhstan (vedi foto) si chiama Igor e ha voluto lasciarmi il suo numero di cellulare per divenire il mio autista personale durante tutta la mia permanenza in città. Ama aumentarmi la tariffa perchè sono straniero (2000 Tenghè anzichè 900), ma sulle prossime corse conto di riportarlo alla normalità, altrimenti che se ne vada a spennare altri polli. Tra qualche ora mi vedrò con Irina Mykova, la responsabile alle risorse umane : si trova qui a far visita ad alcuni parenti, ma so che tra due giorni dovrà ripartire per Atyrau, dunque mi girerò la città in solitario. La cosa non riesce a dispiacermi affatto...
Irina è sempre molto festosa con me, la sua grande apertura culturale le consente di apparire più leggera e meno drammatica delle sue connazionali, sicuramente più ironica e aperta allo humour, il che mi da chances di non disperdere le mie continue freddure nell'incomprensione generale. Vi dirò, Irina è campionessa di battute, credo che questa sera sarà dura non riuscire a ridere!

A L M A T Y ! ! !

















Scoperti in Siberia due nuovi maxi giacimenti di gas condensato

Mosca, 12 febbraio – Due nuovi giacimenti di gas condensato, di cui uno enorme, sono stati scoperti in Russia, nella regione siberiana di Irkutsk. Lo ha reso noto l’agenzia Itar-Tass, citando fonti dell’agenzia territoriale per lo sviluppo delle risorse energetiche. Il giacimento più grande, denominato Angaro-Lenskoie, è situato a sud-ovest della città di Ust-Kut e la sua potenzialità è di 1200 miliardi di metri cubi di gas e di 60 milioni di tonnellate di gas condensato. Numeri che lo rendono comparabile con il giacimento Kovikovski, il più grande della Siberia dell’est, scoperto negli anni ottanta e le cui riserve sono stimate in 1900 miliardi di metri cubi di gas. L’altro giacimento scoperto, denominato Levobereznoie, è situato lungo la riva sinistra del fiume Angara, 150 km a nord della città di Sayansk: le stime parlano di riserve per 60 miliardi di metri cubi di gas e di 10 milioni di tonnellate di gas condensato.

The Big Game

Per chi arriva in macchina dalla Russia europea il biglietto da visita del Kazakhstan è costituito da una manciata di strade sterrate, disseminate di buche profonde fino a mezzo metro. A confermare che la madre Russia è ormai lontana ci penserà di lì a poco il paesaggio: una steppa desertica e desolata, che si distende a vista d’occhio.
È il Karachaganak, Nord-Ovest del Kazakhstan, una delle regioni più ricche di
petrolio e gas al mondo.

La corsa all’oro nero da queste parti è iniziata qualche anno fa. A darne il via non è stata tanto la dissoluzione dell’Unione Sovietica (e l’indipendenza raggiunta dal Paese nel 1991), quanto l’elezione a Presidente del discusso Nursultan Nazerbaev, ex leader del Partito Comunista kazako e attuale uomo più ricco del Paese, ottavo più ricco al mondo per uno Stato che stima un PIL di soli 56 miliardi di dollari, superato dal Bangladesh e di gran lunga da Nigeria e Romania. È stato il Presidente, infatti, a decidere la vasta opera di privatizzazione del settore energetico. Le maggiori multinazionali petrolifere non hanno esitato ad investire massicciamente nel Paese, spartendosi in poco tempo le licenze per lo sfruttamento dei giacimenti e gli appalti per la costruzione di infrastrutture e pipelines. Non è inusuale,quindi, sentir parlare italiano o inglese da queste parti: Agip e British Gas detengono le quote di maggioranza nel consorzio (cui partecipano anche la statunitense ChevronTexaco e la russa Lukoil) che per 40 anni ha diritto a sfruttare i giacimenti.


Incontriamo ingegneri con alle spalle Libia e Nigeria, Algeria e Mar del Nord. Ora gravitano attorno ad Aksai, un centro polveroso di 30.000 anime a pochi Km dal
confine russo. “Qui si lavora 12 ore al giorno” spiega un dipendente Agip “Ogni 4
settimane qua però ne passo altrettante a casa”. Più a lungo, del resto, sarebbe difficile resistere. Soprattutto in inverno, quando la temperatura può scendere fino ai 40 gradi sotto zero.
I tecnici stranieri risiedono per lo più nel Check Camp, una cittadella controllata a
vista da guardie armate. Le persone locali non vi hanno accesso, a parte le ragazze che la sera affollano il pub nella speranza dell’incontro che le possa cambiare la vita. “A parte l’ottimo stipendio, sono le ragazze a spingermi a continuare a lavorare in questo posto dimenticato da Dio” si confessa John, inglese, due anni da pendolare Londra-Aksai. Coloro che lavorano qui più stabilmente affittano alloggi in lugubri palazzoni costruiti in epoca sovietica. Con il crescere delle richieste, i loro prezzi sono lievitati a dismisura e affittare un minuscolo appartamento costa almeno 300 $ al mese. Sono pochi i locali che si possono permettere certe cifre, così la maggior parte di questi vive in vere e proprie catapecchie nell’Aksai vecchia dove manca tutto, paradossalmente anche acqua calda, luce elettrica e riscaldamento.
“A volte le ragazze ti si avvicinano solo per poter venire da te, farsi una doccia e dormire in un letto comodo al caldo” ci confessano alcuni italiani.

“Per me l’arrivo delle compagnie estere è stata una fortuna”. Da dietro il bancone del Trnava, l’unico negozio della città, Olga sorride scoprendo i suoi denti d’oro. Come lei, altri in città hanno trova to un lavoro: autisti, donne delle pulizie, guardiani. Nessuno come tecnico: quelli arrivano da Uralsk, Almaty, addiritura da Mosca. Per tutti gli altri locali, e sono la maggioranza, la vita è ancora fatta di piccolo commercio ai bordi delle strade dove sfrecciano fuoristrada americani e arrancano vecchie Lada.

Pochi Km più in là è campagna, e qui a vita scorre lenta e uguale a se stessa da secoli, tra pascoli e campi duri da coltivare. Le piattaforme delle unità produttive si vedono all’orizzonte, ma no n potrebbero essere più lontane.
La nuova frontiera nella corsa all’oro nero, ci spiegano gli esperti, si è spostata
qualche centinaia di Km più a sud, sul Mar Caspio. Si calcola infatti che in questo che è il più grande mare chiuso al mondo, sia racchius a quasi la metà delle riserve
petrolifere mondiali. Non a caso i cinque Paesi che vi si affacciano (Kazakhstan, Iran, Turkmenistan, Russia e Azerbaigian) non si sono ancora accordati sul criterio da seguire per la divisione delle sue acque.
Sulla sua costa settentrionale, nel territorio kazako del Kashagan, si è ancora allo
stadio esplorativo, ma gli attuali sviluppi sono straordinariamente incoraggianti tanto da far parlare del più importante ritrovamento petrolifero mondiale degli ultimi decenni (oltre 40 miliardi di barili di petrolio) che proietterebbe il Kazakhstan tra i primi 5 produttori mondiali di greggio. L’ENI l’anno scorso ha vinto la gara internazionale per essere operatore unico, ma tutte le maggiori compagnie mondiali sono presenti nel consorzio.
Atyrau, città-chiave affacciata sul fiume Ural a pochi Km dal Caspio, si sta
rapidamente trasformando. Sul ciglio della strada troviamo donne che vendono
biscotti casalinghi, sigarette sciolte e latte nelle bottiglie di plastica dell’acqua. Alle loro spalle si erge una vera e propria città nella città, costruita dagli americani della Chevron: caseggiati color panna che ospitano non solo abitazioni, ma anche scuole, asili nido e ristoranti; il tutto naturalmente recintato e ipercontrollato. Le altre compagnie si stanno attrezzando: alberghi di lusso e moderni edifici, quali quello costruito dall’Agip per i suoi uffici, stanno nascendo tra i vecchi palazzoni del centro e le catapecchie della periferia.
La prossima fase del “Big Game” per il controllo del petrolio caspico si giocherà in
queste terre e riguarderà il problema che per anni ha frenato l’attività estrattiva nella zona, quello degli oledotti. Di fronte, nonostante i più o meno concreti avvicinamenti politici degli ultimi tempi, Russia e Stati Uniti.
La Russia gode di un vantaggio iniziale: tutte le pipelines attualmente esistenti, per quanto obsolete o attraversanti zone instabili (come la Cecenia), tagliano almeno in parte il suo territorio e su esse Mosca impone pesanti royalties. Inoltre, dopo circa dieci anni di lavori e oltre 2,5 mld di euro di investimento, ha inaugurato una nuova pipeline che dal Kashagan raggiunge il proprio porto di Novorossiisk, sul Mar Nero. Gli Stati Uniti sembrano in ritardo, ma l’appoggio di molti Paesi ex sovietici decisi ad affrancarsi dalla condizione di “cortile di casa” di Mosca, e i maggiori mezzi finanziari e tecnologici, possono colmare il gap. L’obiettivo è quello di sviluppare una rete di trasporto che eviti Russia e Iran .

L’oleodotto che da anni gli Stati Uniti hanno sostenuto per bypassare quelli russi, è il Baku (Azerbaijan) - Tblisi (Georgia) - Ceyhan (Turchia). Rimane anche in piedi l’opzione Baku - Supsa (Georgia) e da qui il trasporto del greggio via nave verso l’Europa attraverso il Mar Nero. E soprattutto, con lo stabilizzarsi della situazione afgana, può ritornare in auge un’ipotesi caldeggiata dalla Casa Bianca fin dagli anni ’90: una super-pipeline (oltre 1000 Km) che porterebbe il petrolio dell'Asia Centrale da Chardzhou (Turkmenistan) fino alla costa pakistana del Golfo Persico passando per l’Afghanistan. Il perché di tale investimento è chiaro: con i livelli di sviluppo di questi anni, la domanda di energia da parte dei Paesi del sud-est asiatico crescerà esponenzialmente. Per lo stesso motivo, la stessa Cina cerca di ritagliarsi uno spazio tra Russia e Stati Uniti: nonostante gli ingenti costi che comporterebbe, è in fase di progettazione un oleodotto che la raggiungerebbe dopo aver attraversato tutto il Kazakhstan. I prossimi anni ci diranno chi saranno i vincitori del “Big Game” che determinerà il futuro energetico del pianeta.
Intanto scende la sera ad Ayrau e le donne rannichhiate ai lati della strada continuano a vendere i loro biscotti impolverati. Alzano lo sguardo solo di tanto in tanto, per controllare i loro figli che si tuffano nelle acque inquinate dell’Ural.
Comunque vada, il “Big Game” ha già i suoi spettatori.
(ringrazio il collega e amico Diego Rivetti per le sue testimonianze)