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La maledizione del petrolio (R. Skidelski)

L’economia di un Paese come la Russia di Putin o il Kazakhstan di Nazarbayev è un’economia cosiddetta “a binario unico”. Il suo boom è alimentato dell’aumento dei prezzi dell’energia. Così spiega Robert Skidelsky, giornalista e opinionista per la rivista britannica Prospect:


Il predominio del settore delle materie prime è frutto di due fattori: il fallimento della “terapia d’urto” adottata per rinnovare l’economia negli anni Novanta e la convinzione che petrolio e gas consentiranno al Paese di restare tra le grandi potenze. Dal 2001 i prezzi dell’energia sono più che raddoppiati. Nel 2006 petrolio e gas hanno contribuito al PIL russo per oltre il 40% (in Kazakistan siamo all’incirca sulle stesse cifre: l’industria del petrolio e del gas ha assorbito il 47% degli investimenti diretti esteri in entrata, le attività immobiliari e di leasing il 31,7%, il settore manifatturiero l’8,2% ed il commercio all’ingrosso e al dettaglio il 4,2%).
Energia e minerali hanno costituito il 60% dele esportazioni russe e garantito il 40% dele entrate del governo. Le azioni del settore delle materie prime coprono l’80% del mercato borsistico della Russia.
Complessivamente l’economia dipende dall’esportazione di risorse naturali più di quanto non avveniva in epoca sovietica. Quello dela Russia postcomunista è un caso unico di deindustrializzazione. Sul breve periodo il Paese ha beneficiato enormemente del boom dell’energia. Tuttavia, è assai probabile che a lungo termine gli effetti siano nefasti, a causa di quell’insieme di fattori che gli economisti chiamano “la maledizione del petrolio”.
Per crescere, un Paese con poche risorse naturali deve sviluppare l’industria e i servizi. Giappone, Cina e India hanno usato la loro abbondante manodopera,tenuta artificialmente a buon mercato grazie a tassi di cambio favorevoli alle esportazioni. Al contrario, un Paese ricco di materie prime può svilupparsi rapidamente, ma corre il rischio di dare vita a un sistema economico che, sul lungo periodo, finisce per ostacolare la crescita. Questo paradosso ha diverse spiegazioni. Innanzitutto, i prezzi delle materie prime sono più volatili di quelli industriali. Per questo, un Paese dipendente dalle esportazioni di energia è particolarmente esposto agli sbalzi dei prezzi del mercato. In secondo luogo, gli ingenti flussi di valuta straniera, che arrivano dalle esportazioni di materie prime, danneggiano la competitività dell’industria interna non petrolifera e fanno aumentare il tassi di cambio. In terzo luogo, un’economia basata sulle risorse naturali rischia di essere troppo legata alla politica. Gas e petrolio vengono infatti considerati parte del patrimonio della nazione : devono quindi essere tenuti al riparo da mani straniere e messi a disposizione della politica. In quarto luogo nei sistemi economici dove abbondano le materie prime, tutte le energie creative sono assorbite dalla lotta per la distribuzione dei proventi dell’energia e non vengono usate per creare sviluppo. In queste economia la ricchezza è un dono della natura e occorre solo decidere chi ne controllerà le rendite. In quinto luogo, gli squilibri strutturali riducono la domanda di rappresentanza democratica. Un governo che non ha bisogno delle tasse sui redditi dei propri cittadini per finanziare i suoi progetti non deve nemmeno rendere conto delle sua decisioni all’elettorato. Infine, il controllo del territorio diventa una questione chiave per la politica. La distribuzione diseguale delle risorse può spingere alla secessione le regioni più ricche e incoraggiare le più povere a cercare di assumere il controllo su tutto il territorio con metodi dittatoriali.
Queste caratteristiche non sono le conseguenze inevitabili di uno sviluppo costruito sulle materie prime : sono tendenze che possono esseregovernate con i giusti provvedimenti politici. La Norvegia e i Paesi Basi sono sfuggiti alla maledizione del petrolio, la maggior parte dell’America Latina ne è stata vittima. L’Unione Sovietica aveva trovato una via d’uscita nell’industrializzazione forzata. La Russia postcomunista, invece, è stata colpita dalla maledizione del petrolio a causa del rapido tracollo industriale e della mancanza di quella competitività che avrebbe portato a una salutare ristrutturazione dell’economia.

Le conseguenze di questo sviluppo squilibrato sono evidenti nella Russia [e nel Kazakistan, ndF.S.] di oggi. Innanzitutto, l’economia è profondamente vulnerabile a qualsiasi diminuzione del prezzo del petrolio. Se il greggio scendesse da 60 a 45 dollari al barile, ilmercato azionario di Mosca brucerebbe in un attimo un terzo del suo valore. In uno scenario del genere, si ridurrebbe il potere di acquisto dei cittadini e ci sarebbe un calo sensibile della domanda aggregata. Anche le entrate del governo diminuirebbero a causa della contrazione dei profitti tassabili. Un’ulteriore conseguenza sarebbe il crollo del mercato immobiliare, sostenuto artificialmente dai petrodollari.
In secondo luogo, il Cremlino ha deciso di limitare gli investimenti stranieri nel settore dell’energia, con il risultato che la produttività è molto più bassa di quanto potrebbe essere. Il terzo punto è la mancanza di competitività. Nonostante i massicci interventi della banca centrale russa, dal 2003 il rublo si è rivalutato del 15% sul dollaro. Secondo un rapporto pubblicato nel Novembre 2006 dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, “i principali fattori alla base dell’alto tasso di crescita in Russia sono transitori”. In pratica, i profitti dalla svalutazione del rublo del 1998 sono esauriti e la crescita, dovuta agli alti prezzi delle risorse, rallenterà man mano che l’economia diventerà meno competitiva. Tra le ragioni del declino della competitività c’è di nuovo il petrolio. L’enorme afflusso di petrodollari ha fatto dimenticare la necessità di investire in innovazione e riforme, aumentando così la dipendenza dell’intera economia dalle materie prime.

L’economia della Russia [come quella del Kazakistan, ndF.S.] è altamente monopolizzata. La produzione di gas è controllata dallo Stato al 90% e il monopolista Gazprom è proprietario di tutti gli oleodotti per le esportazioni. Il controllo pubblico sull’industria petrolifera è passato dal 19 al 34% negli ultimi tre anni. Nell’industria metallurgica ci sono tre giganti del settore non ferroso (Rusal, Sual, in via di fusione, e Norilsk) e quattro nell’acciaio (Severstal, Mmk, Nlmk, Evraz). La quota delle ricchezze prodotta dalle piccole e medie imprese sul PIL è inferiore al 25%: la più bassa nelle economie di mercato emergenti. La Russia, inoltre, non è stata in grado di sfruttare il proprio capitale umano. Nonostante il Paese abbia una manodopera a buon mercato e con competenze tecniche e scientifiche superiori, la delocalizzazione nel settore dei servizi si è concentrata in India e Cina. Inoltre, un’economia basata su gas e petrolio non aiuta certo a combattere il fenomeno dell’emigrazione del personale qualificato,uno degli aspetti più preoccupanti del calo demografico in Russia. Anche in questo campo, i recenti e timidi provvedimenti adottati dal governo non sembrano sufficienti a cambiare le cose.
In una situazione simile, alcuni economisti sostengono che il Paese avrebbe diversi vantaggi da una diminuzione del prezzo del petrolio. Con un rublo svalutato, l’economia potrebbe diversificarsi e il settore non energetico diventare più competitivo. Tuttavia, questa transizione non sarà graduale e non potrà non tener conto dell’instabilità del mercato petrolifero. Nessuno sa quale prezzo del petrolio sua sostenibile a lungo termine. Per adesso, il bilancio e l’economia russi sono al sicuro grazie alle riserve di valuta straniera, pari a oltre 300 miliardi di dollari e a un fondo di stabilizzazione che tocca i 90 miliardi. A ben vedere, però, sono proprio questi enormi patrimoni a rappresentare un ostacolo all’innovazione e alle riforme.
In sintesi, si potrebbe affermare che l’economia russa è prospera ma non stabile. Il carattere ciclico della sua ricchezza è più accentuato rispetto a quello delle economie emergenti e povere di risorse o ricche e avanzate.

Dal punto di vista della solidità del sistema politico di Paesi quali la Russia e il Kazakistan, potremmo ricordare le parole dello storico britannico Andrew Wilson. Questi ha parlato di “politica virtuale” in cui il Presidente controlla i fattori produttivi del sistema democratico (partiti e mezzi d’informazione) e non ha così bisogno di manipolarne i prodotti (i risultati elettorali). Il primo ministro russo Michail Fradkov non conta nulla e i membri del governo sono importanti solo perchè hanno accesso diretto al presidente. Putin ha anche tagliato i finanziamenti alle ong politiche e si è guadagnato la fedeltà della chiesa ortodossa garantendole il quasi totale monopolio sulla vita religiosa del Paese.
Entrambi i presidenti, Vladimir Putin e Nursultan Nazarbayev, hanno dato vita a un sistema di governo altamente personalizzato, più simile a quello degli zar che a quello dei segretari generali del Partito comunista.

Ora, se l’Unione Sovietica era una superpotenza a binario unico, la Russia di oggi è solo una grande potenza a binario unico, mentre il Kazakistan è a appena una potenza in via di sviluppo a binario unico (il suo PIL ammonta ad appena 50 miliardi di dollari). Hanno scambiato il proprio complesso militare e industriale con un sistema economico basato sulle materie prime. Questa scelta ha bloccato la diversificazione dell’economia, ma ha aperto nuove strade in politica estera. La dipendenza dal petrolio ha portato la Russia a trascurare la questione degli interessi nazionali, da cui dipende anche la definizione di un’identità ancora confusa e incerta.
La prosperità legata al petrolio ha messo a tacere gli annosi dibattiti sul ruolo del Kazakistan nel mondo: oriental o occidentale, nazione o impero, alleata o polo. Putin, ad esempio, ha sfruttato in modo brillante l’opportunità offerta dall’11 settembre. Scavalcando le decisioni dei militari, ha deciso di appoggiare gli Stati Uniti, concedendo loro l’accesso ai Paesi ex-sovietici dell’Asia Centrale. Se il Kazakistan e il Kirghizystan rappresentano una base sicura per gli americani, non è stato perchè questi Paesi hanno deciso liberamente, ma solo perchè la Federazione Russa ha dato il via libera ad eventuali ingerenze sullo spazio post-sovietico. Ha poi chiuso le basi russe in Vietnam e a Cuba e ha accolto le richieste di Washington di mantenere il prezzo del petrolio più basso di quanto chiedea l’Opec. Questo avvicinamento poteva essere la base di una duratura alleanza con l’Occidente, alla continua ricerca di alternative al petrolio mediorientale. A Mosca, a Bruxelles e a Washington si è cominciato a parlare di un’allenza strategica tra i due ex nemici della guerra fredda, e di uno spazio energetico comune tra Russia e Unione europea.

Putin aveva investito gran parte del suo capitale politico in questo progetto di alleanze. Mail suo fallimento ha spinto al dietrofront la Russia, tornata ad avere con l’Occidente dei semplici “rapporti funzionali”. Se critiche alla politica russa in Cecenia si sono attenuate, tuttavia a Mosca non è stato offerto alcun canale privilegiato per entrare rapidamente nell’Organizzazione mondiale del commercio (WTO-OMC). L’occidente non ha nemmeno accettato di aprire un dibattito sui nuovi accordi in materia di armamenti nucleari e ha sempre rifiutato di concedere al Cremlino un ruolo attivo nella NATO e in Medio Oriente. Da Bruxelles non sono mai arrivate proposte concrete per costruire un’alleanza di largo respiro. Inoltre, una serie di rivoluzioni “colorate” in Serbia, Georgia e Ucraina, ispirate dagli Stati Uniti – o perlomeno finanziate dalla CIA – hanno aumentato il senso di isolamento della Russia e la sua paranoia antioccidentale. Anche gli accordi di cooperazione energetica con l’Unione Europea sono ostaggio della lotta per l’influenza strategica.
La Russia ha usato il suo potere energetico per ricordare agli ex Paesi fratelli che il loro futuro dipende più da Mosca che dall’Unione Europea (interruzione dei rifornimenti di gas alla Georgia e all’Ucraina, di petrolio alla Bielorussia e alla Lituania). La maledizione del petrolio si ripresenta quindi anche nei rapporti internazionali.

La maledizione del petrolio produce quello che lo scittore Viktor Erofeev chiama un “discorso imperiale intraducibile in altre lingue”.